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Ivanoe Fossani, “Il Popolo di Roma”, 12 gennaio 1955

La pittrice Giuliana Caporali che, nonostante la sua giovanissima età, incontriamo da parecchi anni nelle più importanti mostre collettive, si presenta per la prima volta da sola al pubblico e alla critica. Padrino ha voluto essere Eliano Fantuzzi, con una cordiale presentazione. La bontà di Fantuzzi è proverbiale, ma non esclude, dove è necessario, il giudizio severo. La sua presentazione è, dunque, il primo elogio, che la Caporali si è meritato. Un elogio – a noi sembra – non animato dalla simpatia o dall’amicizia, ma da una aderenza artistica. Il bravo Fantuzzi è veneto e la pittura della giovane artista si riallaccia, in un certo senso al “chiarismo” che è, come si sa, di origine veneta. La Caporali merita subito il nostro consenso per la serietà della sua impostazione. Non aver ceduto alla vanità di esporsi prima significa che ha un grande rispetto per l’Arte e ha coscienza dei propri limiti. Nemica della faciloneria, lei ha atteso che il momento della prova coincidesse con una maturità alla quale lei per prima potesse far credito. Ecco dunque una mostra di un giovane, selezionata con la severità di un anziano, che deve difendere il suo nome.

I temi sono tratti dalla natura – l’eterna ispiratrice – e dalla vita. Niente torbidi “intimismi”, niente misteriosi “stati d’animo”, niente “eccentricità”, ma acuta visione ed acutissima sensibilità di trasmissione, sorretta da un disegno obbediente alle leggi della prospettiva, del volume e della forma. La stesura coloristica è in superficie come quella dei “tonalisti” e dei “matissiani” e delle migliori tecniche moderne ed i volumi sono ricavati dal giuoco sapiente dei contrasti di cui offrono un bel esempio le “marine”. La “realtà” è un tremendo banco di prova: chi non è artista nel senso assoluto della parola rimane imbottigliato nel “fotografismo”, che rilascia solamente certificati di artigiano. La Caporali è artista perché non si lascia dominare dal soggetto ma gli si impone: il vero è il suo vero perché lo filtra nel suo spirito. Le “case”, i “tetti”, i “lavori alla periferia”, le “nature silenti” hanno una loro particolare poesia.

 

 

Virgilio Guzzi, “Il Tempo”, Roma, 18 gennaio 1955

 

Questo è il tempo delle pittrici? Ce lo chiediamo ancora una volta, davanti ai paesaggi e alle nature morte esposte dalla giovanissima Giuliana Caporali alla Galleria Pincio. Se la teluccia intitolata Marina di Senigallia, così deliziosa, di così fine disegno, di colore così trasparente e imbevuto di luce, è l’opera d’una esordiente, bisogna dire che le esordienti hanno talvolta la mano leggera e felice, si fanno conoscere come nature poetiche. Quel ricordo di bella stagione, tenero, ingenuo, è un punto di partenza. La pittrice apprenderà alla scuola di Roberto Melli la scienza di comporre e spaziare coi toni. Ed ecco paesaggi come Inverno romano; nel quale le case, sotto la cupola che s’alza nel cielo grigio, pulito, si assestano secondo i ritmi d’un gusto che potremmo chiamare un postcubismo spontaneo. Ecco i Tetti al tramonto; la Casa grigia dove così finemente s’accordano coi grigi di base l’arancio, il rosa, il pallido limone, e la pittrice scopre un estro compositivo che non è d’ogni paesista. Meno bene, ci è parso, nelle marine. Quivi la pittrice, per fare più costruita la realtà (proprio in senso realistico) perde la sua spontanea grazia e ripete schemi già visti. Ciò le accade, un poco, anche nei quadri di natura morta che hanno – non dico sempre – una impostazione accademica.

 

 

Michele Biancale, “Momento sera”, Roma, gennaio 1957

 

È una giovane pittrice che si va lentamente affermando nella ritrattistica, nel paesaggio e nella natura morta. Che nel ritratto essa conceda ad un che di modistico, specie nel verso tipologico, può essere anche comprensibile, anche se lascia campeggiare le figure su fondi di paese. Ciò che si salva è una modernità di impaginazione che piace.

Il meglio mi pare che la Caporali lo raggiunga nel paesaggio e più nelle nature morte. Nei paesi dove si scorda il paesismo della Scuola romana, a scacchi colorati o a dadi; ma ov'è appunto più libero e disteso. Nelle nature morte dipinte con una materia magra, per impressioni tonali, finissime, in cui le cose perdono il loro peso materiale e una testa d'aglio, ad esempio, rosea, può diventare delicata come un fiore d'arancio. In ciò mi sembra sia il vero timbro del temperamento di tale artista.

 

 

 

Vittorio Scorza, “Auditorium”, Roma, febbraio 1957

 

Presso la medesima Galleria dal 14 gennaio personale di Giuliana Caporali, la quale ha fornito una valida prova dei notevoli progressi che la sua pittura ha conseguito in questi ultimi due anni. Nella precedente mostra tenutasi nel gennaio del 1955, ci piaquero la spazialità, la sintesi, la plasticità dei suoi assunti descrittivi. Ma la colorazione recava, specie nelle vedute di mare, un’impronta talvolta troppo ricorrente di toni immoti e freddi. Ora la tavolozza di questa artista s’è fatta oltremodo limpida ed effusa, ha acquisito come un senso di gioiosità cromatica di cui risultano pervasi i suoi paesaggi romani, così luminosi nel ritmo compositivo dei bianchi avorio, delle tenui siene bruciate, dei gialli ambrati, come è pure in quella “Marina di Acitrezza” e in quelle marine siciliane così trasparenti nella chiarità dei grigi e degli azzurri sotto il vasto cielo. Ma è particolarmente nella figura che la Caporali ha profuso le maggiori delicatezze coloristiche e tanta grazia di modellazione e tale eleganza di segno, le quali hanno rivelato quella sensibilità cui sono dovuti i ritratti di Isabella e di Renzia e quello stupendo “Ritratto di Gigliola” tanto essenziale nelle sue linee e nel lirismo degli accordi dei bruni e dei rossi fusi nel riverbero di una luce di tramonto.

Patrizia Molinari, L'eco della Stampa, 1987

 

Donna e arte alla biblioteca nazionale di Roma.

 

L'appuntamento con il gruppo 12 è quest'anno alla Biblioteca nazionale con il gruppo Polisgramma.

Le artiste, il 25 ottobre, hanno presentato un intervento di « Building Ground art» sulla recinzione metallica del corridoio di accesso e lo spazio antistante la Biblioteca.

Sul lato sinistro del corridoio il tracciato LIDAR, grafico nero minaccioso dell'atmosfera inquinata di Roma. Sul lato destro l'elettroencefalogramma di un uomo che si addormenta profondamente (Tracciato Deep) e poi inizia a sognare.

I REM diventano il segno colorato della fantasia. Ultimo mezzo dell'uomo per sopravvivere ai danni di una città cresciuta male.

Nello spazio successivo, le artiste hanno eseguito interventi-denuncia del loro rapporto con la metropoli.

Giuliana Caporali trasforma il profilo di una metropoli, dove la natura non ha più posto, in un grafico, segno meccanico e scientifico di una società che non dà più spazio ai sogni.

Mario Lunetta, Rai Radiotre, 22 aprile 1998

 

Presentata da Mario D’Onofrio, Giuliana Caporali ha esposto a Parigi, 22 rue Boissière, una serie di pastelli che raffigurano fortificazioni medievali: ma, meglio si direbbe, fantasmi perduti di fortificazioni, muraglie che si confondono con le nebbie e le aurore, spigoli tremendi che avanzano come prue di incrociatori pronti allo speronamento, grandi scogliere lisce che emergono da trasparenze inquietanti. Images è il titolo della mostra, che rende conto una volta di più, con forte suggestione di trasparenze e di velature, di come l’inclinazione dell’artista romana pieghi decisamente verso climi figurativi rarefatti, enigmatici e prossimi all’astrazione. Il verosimile sconfina sempre più nel sogno, e forse nel cauchemar. La potenza di questi manufatti divora il paesaggio, si fa essa stessa paesaggio della mente e dell’immaginazione.

Nessuna nostalgia, in queste belle immagini. Nessun ripiegamento o evasione incantata su un passato remoto favoloso e irrealistico: ma solo, e pregnantemente, un progetto di compattezza strutturale ai limiti del metafisico.

 

 

Paolo Moreno, dal catalogo della mostra “Mito Frammento Memoria”, Roma, 2002

Il Crepuscolo degli Dei

 

Il messaggio che i sovrani di Pergamo avano affidato all'Altare di Zeus, ricomposto all'inizio del Novecento nei Musei di Berlino, viene assunto generalmente come affermazione dell'ordine ellenico sulle forze devastanti della barbarie. Tuttavia, chiunque abbia approfondito la contingenza storica in cui l'opera fu realizzata – Anatolia (188 a.C.) – sa che nei due fregi, rispettivamente con la Gigantomachia e il mito di Telefo, non mancano allusioni a un mondo che restava tormentato da inquietudini e incertezze.

A simile risultato sono giunti un poeta e una pittrice dei nostri giorni, con quella facilità istintiva che è propria degli artisti a rintracciare nelle opere dei predecessori il pensiero nascosto, un principio di contraddizione rispetto all'ufficialità celebrativa del monumento.

Nel 1992 è scomparso Antonio Greggio poeta d'archeologia, che visitando a Berlino in un giorno di maltempo lo spettacolare complesso proveniente dalla Misia, aveva identificato l'isola dei Musei della Sprea, simbolo della nostra cultura terminale, con l'Olimpo minacciato dai figli della Terra, fino a rovesciare l'esito del leggendario scontro.

Furono quei versi a convincere Giuliana Caporali che bisognava tornare al Pergamon Museum con seppia e biacca per indagare l'altra verità della Gigantomachia.

Ne nacque una serie impressionante di disegni, acquerelli e tempere, acrilici e oli, dove risalta la personalità dell'autrice, l'inesausta capacità di estrapolare originali riflessioni. Di per sé il taglio delle scene muta l'accento rispetto al testo, si sofferma nella contemplazione di un arresto, interrompe l'onda della violenza con la pausa della morte; evita la rappresentazione per intero delle divinità, espresse semmai da motivi di panneggio, mentre esalta la bellezza degli aggressori. Piuttosto che la caduta dei giganti ci viene rivelato il crepuscolo degli Dei

 

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Giuseppe Sciortino, La Fiera Letteraria, 16 gennaio 1955

 

[…] Sul piano del gusto e della lindura cromatica va anche collocata Giuliana Caporali, che fa la sua prima personale alla galleria ‘Il Pincio’. Presentatore, Eliano Fantuzzi: “Come pittore mi sento attratto dal rigore e dalla misura di questi paesaggi urbani dipinti con nitidezza, dove la geometria delle case è pretesto di armonie pittoriche; nei paesaggi marini sono invece le soluzioni pittoriche ad essere pretesto di geometria. Di quella geometria su cui posa tutto il Creato”.

Non si poteva dir meglio in lode della giovanissima pittrice: è nei suoi quadri la chiarezza del suo spirito. I dubbi, le difficoltà, la scontentezza, il senso del rischio verranno in seguito: la pittura di Giuliana Caporali forse ne guadagnerà, ma non ci sarà più la suggestiva e rosea atmosfera del suo caro giovanile entusiasmo.

 

Franco Miele, La Giustizia, 13 gennaio 1955

 

I paesaggi che Giuliana Caporali presenta alla galleria ‘Il Pincio’ hanno una loro comunicativa, forse perchè  la composizione ha sempre avuto un suo equilibrio, forse perché i toni, anche senza essere elaborati, sono ben scanditi: La artista è troppo legata ad un certo “geometrismo” nelle zone di colore, che rende a volte rigida e un po’ stilizzata la rappresentazione. Ma già si avverte il tentativo di ‘rompere’ questo eccessivo rigore, per dare sfogo ad un sentimento che guidi l’artista in una adesione sincera ad una realtà vista quasi idealmente.

Auguriamo alla giovane pittrice di aver maggior fiducia nelle sue capacità e di non rifarsi ad altri: le sue opere, nel loro castigato candore, rivelano già disciplina di lavoro e desiderio di sempre nuovi approfondimenti.

 

La carovana, Gennaio – Marzo 1955

Giuliana  Caporali, esponendo, ancora in gennaio, alla Galleria ‘Il Pincio’, ci ha dato la sua prima ‘personale’. Una pittura che inequivocabilmente pone lo assunto costruttivo, è sinonimo di rigore e di coscienza, anche laddove la tensione iniziale non approda all’esito voluto. D’accordo: la ‘coscienza’ non restituisce, da sola, risultati d’arte, ma, a parte la precisazione che essa non in tutte, anzi in poche, opere della Caporali  resta ferma al suo solo senso ‘morale’, è da rilevare che se ne accentua il valore quando chi la dichiara è un’artista giovane. L’indulgenza a moduli d’eccentricità iconoclastica e ad espressioni ‘à la page’ è fra i più comuni errori dei giovani, errori favoriti o evitati, nei casi opposti, dalla assenza o per la presenza della partecipazione spirituale, umana, indispensabile. Appunto di tale partecipazione mi sembra che la Caporali non difetti. Le opere presentate valgono anche ad additare i punti in cui questa artista dovrà maggiormente impegnare le proprie capacità, temperando nel calore tonale quell’istinto ‘compositivo’ ch’è la sua nota caratteristica ma anche la sua remora. Già uno svolgimento in questo senso si coglie ‘storicamente’ lungo le date di creazione delle opere esposte: ‘Natura morta con mele’ del 1954 rende un colore più sensibilizzato, pur nella costante formulazione geometrica. I paesaggi sono privi di figure umane, deserti in un loro significato d’ ‘occasione’ per le costruzioni dell’artista: così ‘Il monte d’argento’ e ‘Marina di Capri’, mentre in ‘La casa grigia’ tale costruzione si amplifica, per volumi essenziali. Le ‘nature morte’, obbediscono ad una cadenza di masse e di linee precisa. Si ricordi ’Natura morta n. 24’, cezanniana nell’impostazione dei piani prospettici. Molta parte della critica che si è interessata a queste opere ha svolto esercizi di ‘lettura’ e divagazioni patetiche: a me pare, invece, che così si sia sacrificata la ‘lettura’ più debita e propria di questo lavoro, dico quella del linguaggio formale: necessaria qui più che altrove.

 

M.M. Sinibaldi, Pittura, 10 – 25 gennaio 1957

Galleria “ IL PINCIO”

Piazza de Popolo, 19 – Tel.683.223

Espone dal 14 al 23 gennaio la pittrice Giuliana Caporali.

La Caporali ci offre un saggio di pittura che ha il pregio della chiarezza, l’attrattiva della naturalezza e quella distinzione che sempre si accompagna alla semplicità. Nessuna ricerca di effetto: e proprio per questo l’effetto è sempre conseguito; uno stile il suo che obbedisce al sentimento e che testimonia un senso innato della pittura.

Di una rara grazia e di una modernità vigilata i suoi ritratti.

 

Scena Illustrata – Luglio 1982

Se non erro anche il buon Dio, compiuto il progetto terrestre con il nulla-osta della Sovraintendenza, ci disse: “Fatelo da voi”. Si deve ammettere che da Eva alla dittatura industriale, è quest’unica legge non scritta che abbiamo presa alla lettera; con quanto zelo, ha dimostrato anche Giuliana Caporali alla sua rentrée nel mondo della pittura su di un particolare unitario splendidamente risolto: La Città.

Nel senso di deserto, non certo di polis, questa è un quadro esauriente dell’aridità, in apparenza immobile, in effetti brulicante di energie nascoste, tanto più velenose quanto più basso il grado di vivibilità.

Mentre mi avviavo alla Galleria Tavazzi con il catalogo in ‘posizione di guardia’ per difenderlo sui cosmopoliti marciapiedi di via Sistina; mi chiedevo perché questa solare persona, astrologicamente Leone, avesse voluto affrontare i dolenti postumi dell’urbanizzazione intensiva (argomento così battuto, poi, da essere ormai sdrucciolevole se documentario) e avesse potuto risolvere interpretazioni, valide se pessimistiche.

Subito, l’opera esibita giustamente all’ingresso su cavalletto quale ‘tela d’identità’, quietava il dubbio mostrando insieme la sensibilità del pittore e la logica del narratore.

Molta strada ha percorso la Caporali dalle acerbe contemplazioni della sua Roma e molto va detto, in assenza operativa. Fatto questo che, lungi dall’atrofizzare uno sviluppo, in concorso a maturare una filosofia. E’ così che, a pieno diritto, si ripresenta oggi  nel rispettabile ruolo di missione morale e insieme teatrale per una classicità espressiva che ricorda il dramma Attico: magari senza attori ma stipato di coreuti, intunicati di cemento e vetro. Su costoro (segreto Corifeo) il cosiddetto Progresso controlla il ritmo di invisibili plinti, con professionale quanto allucinato gesto direttoriale.

La scena della mostra vive del risultato d’uno sviluppo che, dall’infanzia d’una disposizione contemplativa, passa a un ‘punto di flesso’ geograficamente situato in Brasilia, quel capolavoro di estetica urbanistica, fatta per qualcosa come la metà degli abitanti di Monte Mario, confinata e in crisi e in crisi di gioventù. Questa esperienza la informò, negli anni sessanta, d’una nuova coscienza di cui questa finta Capitale di ieri sembra  un preliminare (afunzionale) del progetto di Kraft Ehrche per il primo insediamento lunare di domani, il duemilaventi.

Da quella svolta, Giuliana entra nella pubertà dell’interpretazione, in attonita scoperta d’un evento fiorito nel sanguigno spazio tropicale, garante della maternità che oggi si compie nelle sue metropoli più giovani e già più vecchie di Brasilia, decrepite dall’infanzia per quel morbo ancora ignoto di senescenza infantile cui daremmo volentieri, in allusione, la sigla E.E.E. Equivoco dell’Evoluzione Economica.

Ricordo che fu proprio attraverso la scoperta di quella forma di Città che la pittrice (concedendole già aloora, intelligentemente, solo il ruolo di comprimaria) incominciò a meditare sui protagonisti veri del dramma: vuoti calcolati dentro al vuoto inesplorato d’un inferno verde che si mangia anche la mano che lo trancia col Machado.

Essa riesce a darci oggi l’amarezza dell’altra, la concretissima faccia del mondo creditore al centro del quale l’Europa (la saggia, vecchia, forse chissà un giorno, sopravvivendo al ruolo di pattumiera, la più giovane forza d’equilibrio) continua a dare segnali di solvenza, almeno dal patrimonio della sua scippata cultura.

Basterebbe il confronto visivo tra il progetto di Brasilia e il più modesto, ma quanto seriamente futurista, progetto di buona memoria, firmato da Claude Nicolas Ledoux per il Villaggio Ideale di Montpertuis, coi suoi grandi spazi funzionali in cui i vuoti, se protagonisti, lo erano come terra produttiva, dominata anch’essa dal geometrismo come la sfera della Casa-Guardia agricola, una perla su ben altro verde cuscinetto.

Tornando all’Artista, la preziosa tonalità della sua pittura (pur evidente in dolcissime sfumature poco varianti, quasi nebbiose, di ogni prisma) mi si è compiuta  a sorpresa: un simbolo dell’Uomo che , oggettivamente assente si materializzava, direi smaterializzava, come ombra ciclopica d’un solo individuo dietro e sopra (?) le sbarre della sua immensa prigione. Tanta la trasparenza d’un profilo che di lui, più che d’uomo, d’eclisse fra cieli inquieti, dava il senso.

Quanto al carattere ‘leonino’ dell’Autrice ho dovuto ammirare il scrificio della sua personalità nel riferire l’inevitabile quadro della città, a malapena temperato da bassi tagli di un cielo sconosciuto; unica presenza del suo istinto latino. Infatti proprio dove il piano visuale delle inquadrature è ruotato verso  il basso, privandoci dell’unico motivo di serenità là sono stato più graffiato dalle sue lamellari montagne.

A fare l’elogio di questa pittura basterebbe quel che ritengo il capolavoro dell’edizione, solo casualmente la tela più grande (un metro per due) che non incombeva sulle altre ‘minori’ ma si imponeva per il sostrato concettuale, ritmato in una confortante, poiché vera, libertà anti-modulare; dunque vittoria della fantasia.

Direi, questo, il romanzo della maturità di Giuliana Caporali, episodio per episodio vissuto con tale superiorità di giudizio da sottolineare non tanto il drammatico quanto il patetico ruolo del tema, trascinato palmo a palmo con abilità e volontà rare, a volte forse con il sorriso paziente della mamma di fronte all’orgoglio punito del bimbo che, avendo scommesso di saper fare da sé, si perde fra i troppi elementi del suo gioco ad incastr, senza volerlo ammettere.

C’è chi il senso dell’infinito lo dà con un cielo chi con l’ossessione del fare terrestre, in un quadro che titolerei: Perdono, buon Dio.

A ‘rifarlo da noi’ questo mondo, abbiamo provato. Chissà se, per salvare i resti della nostra superbia, un giorno a Lui diremo: Abbiamo scherzato oppure, nel gesto di quei monoliti, alzeremo dodici miliardi di stanche braccia, nella resa.

Anche questo ci ha indotto a pensare l’Artista e anche per questo le si deve un grazie.

 

Franco Ceccopieri Maruffi, L’Osservatore Romano, 18 giugno 1983

Le megalopoli moderne di Giuliana Caporali

Con la sua recente mostra, dedicata alla presentazione delle moderne megalopoli, Giuliana Caporali, offre un tipo di pittura che va al di là di semplici connotati stilistici, per riproporre all’attenzione del pubblico uno dei più inquietanti rapporti della vita moderna: l’uomo che nel contesto di un ambiente, reso funzionale dalle arditezze di certe architetture sembra voler perdere la sua dimensione spirituale, per ridursi a soggetto-oggetto di quanto ha creato. L’artista ha inteso, con una pittura dalla salda impostazione volumetrica, dettatale naturalmente dalla necessità di cogliere in quei segni geometrici, quanto di artistico può venirne fuori, offrirci un quadro delle sensazioni e delle emozioni provate di fronte a tale prorompente esaltazione della forza creatrice di tali complessi urbanistici (Brasilia, New York ne sono i tipici modelli), riuscendo a collocare in un’atmosfera dove i colori, disegno, interpretazione, suscitano un clima estetico di raro valore e di indiscussa perizia. E si ha allora la sensazione che quanto Giuliana Caporali ha dipinto, scaturisca da un rapporto verso queste ‘forme nello spazio’  che vuol come essere di amore e odio. Da un lato queste forme la esaltano e la affascinano, dall’altro la spaventano e la deprimono, fino ad esser ridotto all’essenziale, quasi alla ricerca della segreta motivazione che la seduce. E l’artista affida allora alla poesia del colore quanto ancora di umano e vero possono spiritualmente esprimere quelle architetture, offrendoci momenti visivi di raro godimento.

Ma resta sempre il problema di fondo; l’uomo che per quanto cerchi di sfuggire dall’angoscia che l’ambiente provoca in lui, rimane sempre prigioniero e schiavo di tale allucinante realtà. Questo soprattutto hanno espresso una serie di ottime raffigurazioni, le tempere, le chine, le lineografie, di eccellente risalto plastico, che completano e concludono questa interessante rassegna. 

 

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