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Carlo Belli

GIULIANA CAPORALI

La città

FARE PITTURA

 

Non è nuova la constatazione che tra gli artisti, pittori e scultori, c’è chi rivela una propensione verso il quadrato, o il triangolo, o il rettangolo. L’impulso inventivo, nutrito di simili attrazioni, ne condiziona le opere, inglobandole per così dire in questi schemi. Giuliana Caporali sente la immanenza del parallelepipedo. Una foresta di parallelepipedi in ogni suo quadro, dove le tre dimensioni prendono corpo in virtù di una evidente perizia tonale.

Queste visioni si presentano come inattese apparizioni suscitando non so quale leggero trasalimento nello spirito di chi le contempla. La visione si blocca nello spazio con una dinamica che è data – e questo è curioso – dalla sua staticità. Tutto è immobile e nello stesso tempo scintillante di costanti rifrazioni.

Una foresta di parallelepipedi può assumere facilmente l’aspetto di una metropoli. Ma non è questo pretesto illustrativo che muove l’intenzione o la fantasia della pittrice: che dalla sua disciplinata orgia geometrica possa configurarsi uno spettacoloso paesaggio urbano è un fatto del tutto casuale. Il vero proposito dell’artista è fare pittura. Soltanto questo: ci guarda i suoi quadri è subito investito da una sensazione pittorica che, per il suo evidente magistero tonale, rende secondario il risultato illustrativo. Più di questo, lo spettatore si gode la solida veste cromatica, la sequenza di accordi perfetti scanditi sulla tastiera della pittura. Vedete le tonalità in maggiore con quei rossi e bruni che si alternano in un ben calcolato gioco di proposte e risposte; vedete le tonalità in minore con quei cilestrini e verdolini che arrivano all’occhio come una carezza.

Certo, il pensiero che non può prescindere dal coordinare la immagine rapportandola alla realtà visiva, è lì pronto a suggerire l’equivalente di non si sa quali fantastiche megalopoli: lo spettacoloso quadro alto un metro e largo due, può suggerire davvero il sospetto che si tratti di una visione di Tokyo, osservata dall’alto di un grattacielo. Ma Giuliana a Tokyo non c’è mai stata, e ciò prova ancora una volta che la invenzione dell’artista precede la realtà e la determina. Non per nulla qualcuno disse che la natura copia l’arte! La invenzione è facoltà che fa dell’artista un profeta; e chi non ce l’ha non se la può dare.

Giuliana Caporali ce l’ha fino al punto da scherzarci sopra. Osservate con attenzione alcune sue opere: che è che non è, da quella aggrovigliata foresta di parallelepipedi esce fuori (ma è tutto dento!) un enorme mostro che fugge trapassando intatto mura e soffitti come un terrificante ectoplasma in espansione. Che significa? La presenza  umana nel conglomerato cementizio? Lo spavento dell’uomo costretto a vivere in cellule che mortificano la sua dignità? La tentata evasione…Ebbene, direi che non ce ne deve importare nulla di tali simbologie. Il mostro che fugge è anch’esso una invenzione dentro alla invenzione. Una invenzione non narrativa, ma soltanto pittorica s’intende: l’osservatore accorto noterà infatti con quale sapiente graduazione l’artista riesce a fare in modo che il mostro si veda e non si veda, lavorando di finezze tonali, di cromatismi affini, tanto da farlo scomparire e nello stesso tempo tenerlo presente come una ossessione immanente. Questo si chiama fare pittura, ossia accordare la pasta  cromatica in modo da ottenere sapienti nuances, limpide trasparenze e acrobazie ottiche capaci di esistere per se stesse, senza agganciarsi al racconto suggerito dalla realtà visiva.

Questo, mi pare, il significato e il valore della pittura di Giuliana Caporali.

 

 

 

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