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Valerio Rivosecchi

GIULIANA CAPORALI

Dipinti 1947 -1959

 

ANNI VERDI

 

 

La storia “ufficiale” delle arti visive a Roma nel dopoguerra è stata ampiamente raccontata da libri e mostre: le lotte senza quartiere tra astrattisti e realisti, l’emergere dell’Informale e i primi vagiti del New–dada, le grandi rassegne come la Quadriennale e il ruolo propositivo e coraggioso della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e delle gallerie provate che facevano da ponte con gli Stati Uniti e Parigi. Protagonisti dei due decenni tra la liberazione e il boom economico sono grandi artisti, oggi rappresentati nei musei di tutto il mondo, e poi intellettuali e collezionisti, critici e fiancheggiatori dei movimenti che si succedono e si combattono sulla scena romana.  Già limitandosi ai fatti salienti il quadro generale appare abbastanza complicato, ma forse non abbastanza vivo e veritiero se non si racconta la storia “minore”, ma non marginale, di un ambiente artistico molto più ampio, certamente non destinato a scrivere grandi pagine di avanguardia, ma ricco di percorsi interessanti e sorprendente, a distanza di tempo, per l’amore profondo che nutriva nei confronti dell’arte.

Nel documentarmi in occasione di questo breve saggio mi trovo, ad esempio, a sfogliare i depliant del Maggio della Pittura romana, dal 1951 al 1956. Era una rassegna organizzata dall’ISA, istituto di Solidarietà Artistica, creato e diretto da Roberto Melli, presso i grandi magazzini CIM nel Palazzo di Vetro di via XX Settembre. Dipinti e sculture, come ci racconta Valerio Mariani, venivano esposti”in mezzo alle stoffe di primavera, accanto ai mille bizzarri, attraenti e gustosi oggetti che ci promettevano la serenità e l’agevolezza dei soggiorni marini e montani” Siamo nei primi anni Cinquanta, la Pop Art è ancora di là da venire, ma a Roma. Prosegue Mariani, gli artisti “scendono dal loro Olimpio fittizio e ci mostrano i quadri mescolati alla vitae si avvedono che la loro pittura, con questo gesto coraggioso, torna ad appartenere all’uomo non come ‘oggetto’ che incute quasi timore perché distaccato dalla realtà quotidiana, ma come ‘momento’ poetico della nostra giornata e richiamo perenne alla spiritualità dell’esistenza” (dal depliant dell’edizione del 1954). Scorrendo l’elenco dei partecipanti, oltre cento per l’edizione, si ritrovano i nomi più noti della “Scuola romana”, da Mafai a Trombadori, da Melli a Pirandello, accanto a giovani emergenti, come Titina Maselli e Renzo Vespignani, Ugo Attardi e Marcello Avenali. Nell’edizione del 1952 fa capolino perfino Alberto Burri con una Muffa. Mostre così, in cui l’aulico mondo dell’arte si mescolava alla vita quotidiana, al commercio e all’industria e andava a cercare il suo pubblico, non erano isolate. I giovani della “Scuola di Portonaccio” esponevano nell’estate del 1946 sui marciapiedi di Via Veneto, negli anni Cinquanta le vetrine di Via Frattina ospitavano un Premio di Pittura sul tema La bellezza muliebre vista dai pittori d’oggi (nella copertina del catalogo di De Chirico). Nel 1956 si tiene a Vigna Clara la Mostra d’arte contemporanea nell’abitazione e nell’architettura moderna (in una sala: Turcato, Scarpitta, Capogrossi, Burri, Franchina, Rotella). Lo stesso anno Il Sindacato cronisti romani organizza a Palazzo delle Esposizioni la mostra Un fatto di cronaca, e ancora una volta stupisce, al di là dei nomi, la quantità dei partecipanti: centonovantatre. Quanti erano i pittori a Roma? A giudicare da queste mostre alcune centinaia, così come numerose erano le gallerie private, più o meno selettive, dove venivano ospitate le loro personali. C’era, insomma, un amore diffuso per la pittura, testimoniato anche dallo spazio dedicato sui quotidiani ai fatti dell’arte, dalla cura con cui i critici recensivano le mostre, da un collezionismo non particolarmente ricco ma aperto e curioso.

Ad ascoltare Giuliana Caporali mentre mi racconta della sua gioventù di pittrice esordiente in questa città distrutta dalla guerra ma piene di belle speranze viene un po’ di malinconia, anche perché i suoi ricordi s’intrecciano con quelli di altri testimoni diretti che ho avuto la fortuna di conoscere.

 

La formazione

 

La famiglia ha un ruolo decisivo nella formazione di Giuliana. Il padre Rodolfo Caporali (Roma 1906/2004) è tra i maggiori pianisti del suo tempo e, come altri musicisti, (Alfredo Casella, Goffredo Petrassi) nutre una viva passione per l pittura, che lo porta a incoraggiare la propensione della figlia per matite e colori “Iniziando a disegnare ‘dal vero’ a 10 anni (matita con un timido accenno di ‘G. Caporali 1942’, come avevo notato sulle opere dei pittori contemporanei, dimostravo la voglia di fare sul serio”

La musica ha fatto parte della mia vita fin dalla nascita: ascoltare il suono del pianoforte (mio padre che “studiava” per i concerti o gli alunni che preparavano gli esami al Conservatorio) credo abbia influito sulla mia sensibilità. Anche l’aver frequentato le grandi Sale da Concerto e ascoltato i maggiori interpreti (da Fürtwaengler a De Sabata) ha certamente fatto nascere grandi emozioni. Forse questa sensibilità pittorico-musicale si è poi espressa nei miei quadri a olio: piccole nature morte e paesaggi eseguiti dal ’46 al ’49.

Un altro grande stimolo al mio ‘bisogno di dipingere’ fu l’amicizia solida e duratura con la famiglia Natale. Il collezionista Giuseppe Natale chiese a mio padre un ‘audizione per il figlio minore che voleva fare l’esame di quinto anno al Conservatorio. Il conseguente invito al M° Caporali e famiglia nell’appartamento-galleria di via Siacci 13 dette inizio ad un’amicizia eccezionale: la nostra   sensibilità musicale si estese facilmente alle Arti Figurative.

Natale è la grande tela che Ziveri sistemò nel salone: un ritratto di famiglia con tutti i personaggi colti nel loro carattere. La signora, con la sua simpatica cadenza meridionale ce li descriveva uno a uno’Questo è mio marito, l’ingegnere, e questo è mio figlio Pasqualino, il dottore – con il telefono accanto per eventuali chiamate –Poi c’è Tonino e perfino la nostra domestica Francesca che sta a vivere con noi da tanti anni e il cane che gioca con la palletta’. Un lavoro di grande impianto, successivo a un altro Ritratto della Signora Natale, in piedi, con indosso un vestito lungo di pizzo nero, degno di un pittore del ‘600.

Tra i pittori che frequentavano la nostra casa ricordo Roberto Melli e Riccardo Francalancia, Antonio Donghi e Alberto Ziveri, Non potrò mai dimenticare la visita di Mario Mafai. Mio padre dopo un lungo tira e molla sul prezzo era riuscito a comprare una Piazza Vittorio esposta allo “Zodiaco”da Linda Chittaro, ma il quadro non era firmato, così Mafai venne da noi con tubetto e pennellino e , sistemato il quadro sul tappeto del salotto, si stese bocconi per apporre finalmente l’importante firma.”

 

L’Accademia e Roberto Melli

 

Sul piano della formazione artistica l’incontro più importante è senz’altro quello con Robero Melli. Nato nel 1885, Melli appartiene a quella generazione di pittori che possono veramente dire di aver scritto la storia dell’arte del Novecento, dalla Secessione a “Valori Plastici”, fino agli anni della “Cometa” e del tonalismo, Fin dagli inizi ha sempre rivestito un duplice ruolo di pittore e anche di organizzatore e animatore. Nel clima del dopoguerra, varcata la soglia dei sessant’anni, è un maestro riconosciuto, ma nuovamente gran parte del suo impegno è dedicato al sostegno delle giovani generazioni. Dal 1945 insegna pittura all’Accademia di Belle Arti in via Ripetta e nel 1946 fonda l’istituto di Solidarietà artistica, organizzando mostre, come quelle sopra ricordate al CIM, i cui proventi dovevano servire a sostenere economicamente gli artisti in difficoltà. Giuliana, appena quindicenne, sta intanto maturando la sua passione per la pittura e orientando i suoi gusti: “Continuando a frequentare con interesse le Gallerie d’Arte mi sentivo in sintonia con alcune opere di pittori dell’Scuola romana? In particolare Melli e Mafai. E proprio Roberto Melli, con la sua grande sensibilità, vide nei miei quadri una naturale inclinazione per ‘gli accostamenti tonali’. Mi sembrò straordinario che mi proponesse di frequentare come ‘auditrice’ il suo Corso all’Accademia di Belle Arti. Iniziai il 1° Dicembre 1947. La grande luminosa aula al V piano mi entusiasmò: il Maestro ci sistemava nature morte originali con oggetti e panneggi. Affrontai le nuove dimensioni (50x70) dei cartoni preparati con gesso e colla di coniglio e i grandi pennelli piatti. Su una parete Melli aveva scritto col gesso COLORE = LUCE, COLORE + LUCE = TONO. Non ho mai dimenticato questo per me importantissimo inizio.”

 

 

La pittura

 

Gli effetti degli insegnamenti d Roberto Melli si fanno sentire molto presto. All’approccio ancora ingenuo dei primi dipinti 8non dimentichiamo che Giuliana è appena quindicenne) subentra una maggiore chiarezza nel disegno, nella costruzione e nella definizione dei toni. I soggetti sono quelli classici            e tradizionali della pittura romana degli anni Trenta-Quaranta: vedute della città. Non solo quella monumentale ma via via anche quella dimessa delle periferie, nature morte con oggetti che sembrano voler raccontare una storia, ritratti di persone care. Tutto rigorosamente dal vero.

Alcune Marine colpiscono per il tono asciutto e sintetico con cui sono rese le rocce, il lontano promontorio del Conero o il Circeo. Piacevano ad un altro pittore che frequentava casa Caporali, Riccardo Francalancia con il quale Giuliana condivide, soprattutto agli inizi, il gusto per gli ampi spazi vuoti, silenziosi, portati in una dimensione espressiva intimista. Negli anni Trenta i pittori romani avevano opposto una visione assolutamente priva di retorica all’immagine roboante della Roma imperiale, ora alcuni di loro, lo stesso Francalancia, il Donghi delle vedute del Gianicolo, Il Trombadori delle perlacee piazze del Popolo, la riproponevano, con la consueta discrezione, ad una città che si trasformava rapidamente, nel suo aspetto esteriore come nella vita sociale e nella cultura. La Roma di Giuliana Caporali non è quella degli animati mercati che appassionavano nei primi anni Cinquanta Ziveri e Mafai, né tantomeno quella che Guttuso rendeva nei suoi lati più popolari, o quella che diventava anonima e sofferente nelle periferie di Vespignani. E’ una città che predilige le atmosfere invernali, è più bella senza i suoi abitanti, si distende verso l’orizzonte in un gioco di geometrie che incanta e ipnotizza.

Proprio le vedute a perdita d’occhio saranno il punto di partenza, vent’anni più tardi, per il ciclo delle Megalopoli in cui Giuliana Caporali porta agli estremi il carattere geometrico e “astratto” di questa ricerca. Al fondo dell’esperienza portata avanti dai pittori “tonali”, Melli e Capogrossi in primis, c’è una necessità di equilibrio tra la realtà apparente, con la sua suggestione, la storia, talvolta perfino i simboli e il dipinto come realtà autonoma, con le sue esigenze di sintesi e di costruzione, la forza di comunicazione del colore-luce. E’ un’idea di pittura che si richiama al Quattrocento di Piero della Francesca e rifugge da qualsiasi scorciatoia espressionista.

Ponendosi nel solco di questa tradizione consolidata. Giuliana Caporali definisce, quadro per quadro, il suo stile personale, il suo carattere. Stimata dalla critica contemporanea, espone in mostre importanti, la Quadriennale (1948,1955), la Biennale di Venezia (1956), e in varie personali (Galleria del Pincio, 1955 e 1957), ma non sembra motivata dall’ambizione di “emergere” a tutti i costi, ma piuttosto di seguire con metodo e pazienza il filo della sua pittura. Le conquiste maggiori avvengono in termini di sensibilità cromatica e di atmosfera, anche nei ritratti, che si fanno più frequenti e dotati di una loro carica psicologica. Nel suo dialogo con la città alcuni quadri, come Quartieri alti, dimostrano la volontà di andare oltre le inquadrature consuete, misurandosi con quel senso di rivelazione che nasce dal contatto vivo con la realtà.

Nel 1955 fissa la sua immagine in due autoritratti volutamente simili all’impostazione del volto, e molto accurati nella scelta degli elementi simbolici. Nel primo un libro chiuso tra le mani, con il suo nome inciso sul dorso, lo sfondo di una campagna solitaria con un strada in salita. Nel secondo quadro il retro della tela in bella evidenza e la città sullo sfondo, come in un gioco di specchi. Sono due quadri che testimoniano di una prima raggiunta maturità, e non mi riferisco tanto alla tecnica, quanto alla consapevolezza del mistero della pittura. Le immagini possono descrivere case, oggetti, scogli, nuvole, tratti di costa, ma a nulla servono se non ci danno l’indizio di un percorso spirituale, poetico, del quale rimarranno sempre segreti l’inizio e la fine. Forse sono segreti e inconoscibili come le pagine di quel libro chiuso e gelosamente protetto, e non ci resta che seguire quel breve tratto di stada in salita, verso l’orlo della collina

 

 

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